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martedì 26 giugno 2012

LE ALTRE MEDICINE


Si diceva, fra le alternative possibili per i contrari alla sperimentazione animale, l’opzione più semplice è quella di non affidarsi alla medicina tradizionale, che su questa metodica si fonda, ma di rivolgersi a quelle scienze che non hanno (beate loro) bisogno di una tale barbarie.
Nel calderone delle cosiddette “medicine alternative” ci si mette un po’ di tutto, mescolando inopinatamente baggianate e cose serie. Affrontare l’argomento in modo esaustivo sarebbe impossibile, per diverse ragioni, prima fra tutte la mia sostanziale ignoranza in merito alla maggior parte di esse. E comunque, data la vastità dell’argomento, credo che non basterebbe nemmeno un solo blog dedicato a tutte.
Vi dico qual è la mia visione, rigorosamente basata sull’esperienza diretta.
Innanzitutto non penso sia corretto considerare alla stessa stregua medicina cinese, ayurvedica, pranoterapia, erboristeria, omeopatia, naturopatia, cromoterapia, musicoterapia, iridologia, shatzu, ecc, come se si trattasse di diverse manifestazioni dello stesso fenomeno. Ci sono discipline serie e prese in giro. E anche per quelle serie, è bene che siano praticate da persone altrettanto serie, non da ciarlatani.
Sarò cinica, ma sono fermamente convinta che il punto centrale  siano sempre i soldi. Con questo boom di “altre medicine”, credetemi, c’è da fare euro a palate. Il mondo è pieno di persone che pensano, rivolgendosi a queste discipline, di risolvere i propri problemi di salute senza correre alcun rischio.
Comincerei da questo concetto. Nel cinquecento Paracelso sentenziava (grossomodo): “Il limite fra farmaco e veleno è sancito dalla dose”. Era uno che la sapeva lunga. Lo dimostra il fatto che persino l’acqua, simbolo di innocuità per eccellenza, alle giuste dosi può essere fatale.
L’idea che una sostanza possa essere curativa ma sia priva di effetti collaterali, è un miraggio. Per estensione, l’idea che un prodotto “naturale” (leggi erboristeria) non sia nocivo per definizione, è una follia. L’erboristeria è, di fatto, medicina, almeno in teoria. Lo sarebbe se fosse esercitata da chi ha studiato undici anni. Moltissimi farmaci tradizionali sono estratti dalle piante e purificati in laboratorio. Questo li rende più sicuri, contrariamente all’opinione comune. Io so che sostanza prendo, quanta ne prendo e come. Un prodotto naturale, se davvero tale, è spurio. Non posso calcolarne la dose con precisione, non posso sapere che cosa lo contamini. Insomma, è un mezzo appuntamento al buio. Inoltre, alcuni erboristi diventano tali dopo ridicoli corsi di pochi mesi, si improvvisano medici e/o farmacisti, prescrivono rimedi per patologie che nemmeno conoscono e non tutti hanno il buon senso di consigliare una visita medica se le cose si mettono male.
Per lo stesso motivo guardo con estremo sospetto iridologi e  massaggiatori shatzu. Molti dei primi si fanno chiamare “dottore” senza avere alcun titolo di studio. Nel nostro paese non è riconosciuta la laurea in iridologia, ma si sa, siamo facili all’impressione, quindi basta indossare un camice bianco e il gioco è fatto. Per quanto riguarda i secondi…beh, fra le cose assurde che mi è capitato di fare nella mia vita, una è stata insegnare anatomia e fisiologia ad un corso di shatzu. Nessuno dei presenti aveva la minima idea di cosa fosse e come funzionasse il corpo umano, nemmeno dopo le lezioni  e lo studio dei compendi. La regola era: falli passare tutti all’esame perché hanno pagato per il corso e devono essere promossi. Figuriamoci che grado di consapevolezza hanno quelli che promettono guarigioni miracolose pigiando qui e lì la pianta del piede…
Un discorso a parte merita la medicina cinese. Quella sì che è una cosa seria, anche se molto lontana dalla nostra cultura. Il corso di laurea è lungo e pare difficile, ogni discepolo rimane in contatto con il proprio maestro anche se lascia la Cina e viene aggiornato e richiamato in caso di nuove scoperte. I testi su cui gli studenti si preparano fanno venire il mal di testa solo a guardarli. Certo, è tutto diverso: ying e yang, meridiani, legno, fuoco, terra, metallo e acqua, sembra un po’ magia. Eppure c’è una logica stringente alla base di tutto, semplicemente si ragiona in modo diverso. Ma diverso non vuol dire sbagliato. E poi, cosa fondamentale per una scettica di natura come me, funziona davvero, talvolta in modo strabiliante. Non parlo solo di agopuntura, attenzione. Da noi si tendono a far coincidere le due cose, ma identificare la medicina cinese con l’agopuntura è ragionare per sineddoche. Per questo i medici cinesi storcono il naso quando sentono dei corsi che si fanno in occidente: come reagiremmo noi, se in Cina ci si diplomasse in aspirinologia? Probabilmente con una risata.
Ma lasciatemi dire due parole, dulcis in fundo, sulla disciplina che, fra tutte, prediligo: l’omeopatia. Ecco, secondo me è l’invenzione più geniale degli ultimi secoli. In sostanza, sono riusciti a convincerci a pagare cifre assurde per…il niente. Ho sempre avuto una passione viscerale per l’intraprendenza e l’inventiva dei nostri amici partenopei, ma nemmeno loro si sono mai spinti così avanti.
Il principio dell’omeopatia è che si prende una sostanza, la si diluisce miliardi di volte in acqua, affinchè ne scompaia ogni traccia. Cioè, lo scopo è proprio farla sparire, vi rendete conto? Poi si vende quell’acqua a peso d’oro. Qual è il razionale di tutto ciò (a parte la truffa)? Beh, signori, l’acqua si ricorda della sostanza e ne veicola gli effetti benefici anche se questa non c’è più.
Un principio affascinante, quello della “memoria dell’acqua”.
Ora, io sono sicuramente prevenuta e probabilmente poco intelligente, ma non capisco una cosa. L’acqua da dove viene? Sarà venuta giù da una nuvola, caduta sulla terra e da essa assorbita, finita in qualche falda, avrà percorso torrenti, fiumi, magari anche fogne, avrà incontrato pietre, foglie, insetti, pesci. Poi, ad un certo punto della sua vita, sarà stata “catturata” da qualche industria omeopatica, distillata e usata come diluente. Ma allora, mi dite perché di tutte le migliaia di molecole che ha incontrato fino a quel momento, si deve ricordare solo di quella “curativa”? E se le fosse rimasto più impresso il topo morto che ha cullato lungo un fiumiciattolo sperduto? Noi come facciamo a saperlo?
Ci dicono che è comunque meglio della medicina tradizionale, perché mal che vada non fa nulla, ma certamente non causa alcun danno. Non è vero. Se curo una malattia seria con il niente, faccio un danno bello grosso. Se a consigliare una terapia siffatta è, poi, un medico, direi che si rasenta l’omissione di soccorso. In aggiunta, con buona pace degli animalisti che certamente ricorrono all’omeopatia, la sete di affermazione nel mondo scientifico (che significa affermazione in quello economico), ha fatto sì che si conducessero esperimenti con animali anche nel campo dell’omeopatia. Ho letto, tempo fa, di un test sui topolini. Le bestiole venivano sottoposte a stimoli stressogeni per poi essere trattate con non mi ricordo che principio attivo desaparecido, con presunte proprietà ansiolitiche. L’esperimento dimostrò che il farmaco omeopatico aveva lo stesso effetto del placebo (cioè del niente). Dagli omeopati fu considerato un successo, e direi che questo la dice lunga, dato che il medesimo risultato, per la medicina tradizionale, significa fallimento.
Rimane il fatto che ognuno di noi ha il diritto di scegliere liberamente in che modo curarsi, senza essere giudicato. 
Ricordate, però, questo principio generale: se un rimedio non può fare male, difficilmente potrà fare bene.

venerdì 15 giugno 2012

PARLANDO DI SPERIMENTAZIONE – parte seconda: alternative…?



Non è sufficiente urlacchiare allo scandalo. Se pensiamo (legittimamente) che un sistema sia sbagliato, siamo moralmente obbligati, per dare spessore alla nostra indignazione, a suggerire alternative. Sensate. Altrimenti ci limitiamo ad un mugugno che lascia il tempo che trova e perdiamo diritto di parola.
Nel caso specifico, dobbiamo individuare un sistema che ci permetta di non sacrificare animali, ma che garantisca almeno pari risultati in termini di cura e sicurezza per chi ne abbia bisogno. Trattandosi di farmaci, le strade sono due: ricorrere a metodi alternativi di trattamento (ovvero che non prevedano MAI l’uso di animali in laboratorio), oppure utilizzare tecniche diverse di sperimentazione.
Comincerei dal fondo. Per affrontare il tema delle medicine alternative ho bisogno di energia, lo farò nel prossimo post.
Cosa può fare le veci di un topolino da stabulario?
Per rispondere alla domanda è bene avere chiaro di che cosa si stia discorrendo;  la biologia, e per traslato la medicina, non è una scienza esatta. Parrebbe suonare come la patetica scusa di un cerusico mediocre, ma è la drammatica verità. Il perché è, in realtà, semplice. Stiamo parlando di Vita in senso stretto. L’universo cellulare, per chi lo frequenta,  è chiaramente regolato dalle leggi della casualità. Non esistono statuti o costituzioni, ognuno, nell’ambito di un regolamento generale,  fa un po’ come gli pare, agisce come gli viene…insomma, un’organizzazione di berlusconiana memoria, ma di impareggiabile efficienza globale (ecco la Differenza!). In questo scenario, è inutile tentare di applicare le rigide leggi della matematica. Al limite, si può ragionare in termini probabilistici (con buona pace per quelli come me che DETESTANO la statistica). Paradossalmente, la cosa che più si avvicina al caso, è il caso stesso. Per riprodurre un sistema casualmente imperfetto, ne occorre uno simile. Per riprodurre il “funzionamento” di un animale, ne occorre un altro, il più simile possibile per quel particolare sistema. Ecco perché non tutti gli animali vanno bene per tutti gli esperimenti.
Ma torniamo alle soluzioni alternative.
Molti amano parlare di simulazioni informatiche. Sono tentativi in corso, ma per ora parzialmente o totalmente fallimentari. Si ritorna al problema di base: costruire un software simulatore, significa programmare (con precisione matematica) una serie di risposte possibili ad una serie di possibili situazioni. Programmare il caso è, per definizione, piuttosto difficile. Non è detto che prima o poi non si arrivi a farlo, ma per ora niente da fare.

Allora potremmo usare sistemi biologici che non siano animaletti teneri a cui affezionarsi, ma che assomiglino molto all’uomo. Ad esempio….l’uomo…?
In effetti ad un certo punto del percorso di nascita di un farmaco, la sperimentazione umana è prevista. Eccome. Ma a quel punto si è già discretamente certi della sicurezza della nuova molecola e si ha un’idea abbastanza precisa del suo utilizzo, cioè si è già superata la fase veramente delicata e pericolosa della sperimentazione. Almeno, in teoria. Quindi, chi pensiamo di usare per correre questo rischio?
Qualcuno dice i criminali della peggior specie, ma di questo, dal punto di vista etico, abbiamo già discusso nel post precedente.
Qualcun altro potrebbe pronunciare la parola magica: VOLONTARI!
L’adesione a protocolli farmaceutici sperimentali è sempre su base volontaristica. Si prende un paziente che ha un problema di salute specifico, gli si dice che c’è un nuovo farmaco, che non si sa ancora se sia efficace più di quelli che sta prendendo, che il suo utilizzo non prevede rischi particolari noti, gli si fa firmare un consenso e si parte. Oppure si prende un paziente che non ha più speranze gli si dice che non ha niente da perdere, tanto vale fare un ultimo tentativo disperato con il nuovo farmaco. A volte va anche bene. Questi approcci sono eticamente accettabili (ci sono fior fiori di comitati che rimuginano volta per volta), perché si ha almeno la quasi certezza di non fare danno. Altro è prendere una molecola che non si conosce e provare a vedere l’effetto che fa. Chi riusciremmo a convincere a correre un tale rischio? Semplice, volontari a pagamento. Gente che viene più o meno adeguatamente retribuita per il disturbo.
EUREKA! La soluzione era semplicissima! Salviamo le povere bestiole, chiediamo collaborazione ad adulti consenzienti e li paghiamo pure! Fantastico. Si pongono, a questo punto, due problemi. Primo: quanto vale tale rischio? Secondo: chi accetterebbe?
Non so rispondere al primo, sinceramente. Probabilmente occorrerebbe stilare un tariffario in base al tipo di farmaco da sperimentare… per la seconda domanda, invece, credo di avere un’idea. Accetterebbe chi ha disperato bisogno di soldi. Meglio ingollare qualche pasticca o farsi fare qualche buco, piuttosto che vendere un rene…ma allora quanto sarebbero davvero “volontari”?. Sarebbe sfruttamento della miseria altrui, una cosa che fa venire la pelle d’oca solo a pensarci.
Altre alternative?
Ah sì, che scema. Mi stavo dimenticando. Ma quello lo fanno già…
Basta andare il qualche paese del Terzo Mondo, dove non gliene frega niente a nessuno se vivi o muori, e cominciare a provare. A volte i medici senza frontiere o i missionari rompono un po’ le balle, ma scacci il pensiero come una drosofila dalla mela. In fondo sei una multinazionale cazzuta, non saranno certamente loro a darti problemi.
E poi, chi ti può dire niente? Fai persino contenti gli animalisti.

lunedì 11 giugno 2012

QUALE CUCCIOLO SCEGLI? Cominciamo a parlare onestamente di sperimentazione. Parte prima-la coerenza.
















Mi sono trovata, per l‘ennesima volta, a leggere su facebook un post contro la sperimentazione animale. E’ una cosa ciclica; a volte parte da notizie di cronaca, a volte spontaneamente, ma il sistema è sempre lo stesso. Si sceglie la foto di un cucciolotto batuffoloso (di solito di cane), si piazza una scritta a caratteri cubitali tipo “NO ALLA VIVISEZIONE”, si aggiunge un commento provocatorio tipo “usiamo i politici/i criminali/i ricercatori/ecc” e si ottengono molto facilmente valanghe di “mi piace” e liste di commenti che inneggiano allo scuoiamento dei membri del governo o dei pedofili e apostrofano con epiteti irripetibili gli scienziati che usano gli animali.
Ok.
Come al solito l’argomento è trattato con italica approssimazione.
Ora, prima di affrontarlo sul blog, occorre fare alcune premesse.
Primo: sono un medico, che fossi contraria alla sperimentazione animale sarei un’idiota o un’ipocrita, o entrambe.
Secondo: adoro gli animali. Ho sempre vissuto in mezzo ad essi e al momento non ne possiedo perché mi rendo conto che sarebbe solo farli soffrire piazzarli in una casa deserta praticamente tutto il giorno. Mi farebbe piacere avere un bel gattone che fa le fusa sulle ginocchia la sera o un cagnolino che mi accoglie scodinzolando, ma troverei egoista costringerli alla solitudine solo per garantirmi qualche ora di appagamento. Li rispetto, quindi evito di usarli potendone fare a meno.
Terzo: rispetto qualunque opinione, anche se molto diversa dalla mia. A patto che sia accompagnata da coerenza, onestà intellettuale e soprattutto conoscenza reale dell’argomento.
Quarto: è evidente che se ci fosse un’alternativa saremmo tutti felici.

La prima faciloneria, quando si parla di questo argomento, è usare il termine “vivisezione”, che già evoca immagini di atroci torture, perché associata alle foto agghiaccianti che i giornali ci propinavano negli anni ottanta. Allora andava di moda pubblicare le foto di cani e gatti sottoposti a trattamenti allucinanti, che niente avevano a che fare con la sperimentazione seria. Di pazzi è pieno il mondo, anche fra sedicenti ricercatori. Ricordo perfettamente di un cane cui era stata amputata una zampa e successivamente innestata sul dorso. Quale potesse essere lo scopo di un intervento del genere, proprio non so dirlo, ma nell’immaginario collettivo è quella la sperimentazione.
Mi piacerebbe sapere quanti di coloro che parlano di ricerca, siano effettivamente stati in un laboratorio serio. Credo nessuno.
L’altra cosa che mi fa sorridere e mi induce a giudicare quanto meno superficiali i promotori di tali iniziative, è che non di rado gli stessi promuovano campagne a favore della lega anti sclerosi multipla, SLA, ecc. o che si prodighino a ricordare Olocausto ed eccidi similari. Ora, mi vien da dire, decidetevi.
O siete contrari alla sperimentazione o promuovete la ricerca scientifica, perché la seconda senza la prima non è possibile.
O siete contro lo sterminio degli esseri umani o siete a favore del loro utilizzo come cavie da laboratorio. A rigore, dati i commenti che mi trovo (basita) a leggere spesso, i detrattori della sperimentazione animale dovrebbero ringraziare Hitler per aver salvato migliaia di cani utilizzando gli ebrei al loro posto; perché questo era quello che succedeva nei campi di concentramento. Il principio era semplice: sei ebreo? Bene, per me non hai dignità di essere umano, quindi dispongo di te come meglio credo, negandoti il diritto alla vita. Per alcuni (molti), oggi, tale principio è lecitamente applicabile a pedofili e criminali (lasciamo fuori i parlamentari, quello è uno sfogo privo di spessore). Pare difficile da comprendere, ma è solo questione di punti di vista, la sostanza non cambia.
Ma la cosa veramente irritante, dal mio punto di vista, è che la quasi totalità (uso il quasi perché concedo il beneficio del dubbio per principio) dei contrari usa correntemente farmaci sperimentati sugli animali. A voler essere coerenti, bisognerebbe rifiutare l’anestesia dal dentista e durante gli interventi chirurgici, ciucciare corteccia di salice per febbre e mal di testa, rischiare di morire per un banale ascesso. Fumenti per la polmonite, preghiere per le malattie serie.
I duri e puri si rivolgono alle medicine alternative, ma fino a che punto?
Mi figuro una scena. Uno degli attivisti di Green Hill torna a casa dopo aver liberato decine di cuccioli. Entra in casa sporco e sudato, suo figlio gli corre incontro e lo abbraccia forte. L’eroe si sente bene, ha lottato per una buona causa e ora stringe il suo pargolo, il suo mondo, la sua gioia. Il giorno successivo il bambino comincia a sanguinare dal naso. E’ strano, ma a pensarci bene, a chi non succede, prima o poi? Solo che la cosa si ripete tutti i giorni, per una settimana. L’eroe comincia a preoccuparsi, porta il figlio dal pediatra. Esami di routine permettono la diagnosi, per cui l’eroe viene convocato dal medico in separata sede.
“Suo figlio ha la leucemia”, gli dice il dottore.
Il mondo meraviglioso dell’eroe si sgretola in un nanosecondo. Non ha mai provato un dolore tanto intenso in tutta la sua vita, è perso.
Ma il dottore non ha finito. “E’ una notizia terribile, lo so”, aggiunge “ma fortunatamente suo figlio ha il 100% di possibilità di guarire con la giusta terapia”.
La giusta terapia è fatta di chemioterapici testati sui cuccioli per cui si è battuto dieci giorni prima.
L’eroe, uomo tutto d’un pezzo che rischia il carcere per un ideale, che definisce assassini i ricercatori, che partecipa a qualunque manifestazione “anti-vivisezione” ci sia in giro, che si cura con erbe e omeopatia (che peraltro prevede sperimentazione sugli animali, lo sapevate?), può rispondere in un solo modo.
La domanda è: quale cucciolo decide di salvare?

sabato 9 giugno 2012

venerdì 8 giugno 2012

La violenza dell’orrore e l’orrore della violenza. Voi cosa fareste se…




Ho riflettuto a lungo sulla violenza e sulle sue manifestazioni. Mi è capitato di farlo oziosamente di rimando ad una notizia da telegiornale, l’ho fatto più criticamente quando si è trattato di scriverne. La conclusione è che uccidere non è segno di follia in sé. Penso che l’istinto omicida faccia parte di ognuno di noi, nessuno escluso. A definire la crudeltà dell’atto sono modo, movente e tempo; a volte anche la scelta di non uccidere affatto, perché comporta l’applicazione di una tale dose di razionalità da far venire i brividi. Ebbene sì, credo che nell’istinto ci sia solo una minima quota di colpa. Per la verità lo crede anche il sistema giuridico, non che abbia scoperto nulla, ma è un elemento su cui riflettere. 
Io potrei uccidere, su questo non ho dubbi. Sono contraria alla pena di morte, concettualmente e fattivamente, ho sempre considerato la legge del taglione una barbarie insensata, però sarei in grado di ammazzare consapevolmente un altro. A rendere orrenda l’esecuzione programmata di un essere umano è proprio il fatto che essa si basi su un principio strutturato in un sistema. C’è più della premeditazione, sotto, c’è la presunzione di giustizia.
Ecco l’orrore.
Si può essere d’accordo o meno, sono disposta ad accettare altre opinioni e discuterne. In fondo ho appena ammesso di essere una potenziale omicida… ma chiederei a tutti quelli di voi che sono convinti di non poter torcere un capello a chicchessia, o che pensano che sia una pazza furiosa: cosa fareste se vi trovaste a tu per tu con qualcuno che ha fatto del male ad una persona che amate?
Se mi immagino chiusa in una stanza  con il pedofilo che ha stuprato mio figlio, non ho dubbi. Chiunque ne abbia è, a parer mio, il vero malato. Chiunque perdoni è da rinchiudere. Ho scelto quest’esempio non a caso, perché è il classico caso su cui si può razionalizzare parecchio. Primo: la pedofilia è una malattia. Orrenda, incomprensibile, agghiacciante nelle sue manifestazioni, ma pur sempre una malattia. Chi ne soffre, per definizione, non potrebbe essere giudicato colpevole, soprattutto nelle forme in cui il disturbo sia vissuto come egodistonico. Ricordo una conversazione difficile con uno psichiatra esperto in materia: la sua tesi era che le vere vittime fossero i pedofili. Dovetti farmelo ripetere due volte, le mie orecchie pensavano di non aver capito. Invece no, era proprio quella la sua visione del problema. La cosa difficile da accettare è che, in una certa misura, aveva ragione. I bambini sono capaci di una seduttività sconvolgente, istintiva, assoluta, per niente appannata dall’inibizione. Sono irresistibili e se uno ha un problema psichiatrico di quel tipo…
Secondo: se mi trovo a tu per tu con il suddetto individuo, mi vengono in mente tutta una serie di piacevoli torture a cui sottoporlo. Razionalizzo la vendetta, la rendo atroce, perché se lo merita. Mi metto lì e progetto una cosa lenta, dolorosa, terrorizzante.
Quindi, in questo caso specifico l’applicazione della razionalità porta a due conclusioni opposte: non è colpa sua, ma lo faccio soffrire come non ha mai creduto si potesse.
Probabilmente se mi capitasse davvero di vivere una situazione del genere, mi limiterei a saltargli al collo e tranciargli la carotide con qualunque cosa, financo a morsi. Sarei accecata dalla rabbia, mi dimenticherei la razionalità. Non perdonerei e nemmeno avrei il sangue freddo di agire con calma. Lo vorrei morto, subito.
Questo fa di me una persona normale, ancorchè potenziale omicida.
Se, invece, decidessi di tenerlo segregato per giorni, sottoporlo a supplizi indicibili, facendo ben attenzione a mantenerlo vivo, allora sarebbe diverso. Questo per dire che ci sono cose infinitamente peggiori della morte e ci sono sfumature di crudeltà che chi è sano di mente non arriva a concepire.
Mi sono senta dire spessissimo che nel romanzo ho dato prova di immaginazione perversa, ma sono persuasa della mia ingenuità in fatto di violenza.
Mai mi sarebbe venuto in mente un padre che tiene in cantina per vent’anni la figlia, la violenta sistematicamente, le fa sfornare figli che poi sistema in vario modo, talvolta sei piedi sotto la terra del giardino. Mai avrei pensato di far carbonizzare feti, ricoprirli d’oro e rivenderli come portafortuna. Nemmeno di costringere un figlio ad uccidere i genitori in nome di un’ideale.
Eppure l’uomo della porta accanto è capace di farlo. E poi presentarsi tutte le domeniche in chiesa (o qualunque posto con analoga funzione), stringere la mano del vicino, cedere il passo alle vecchiette.
L’orrore vero non è mai nei libri, quella si chiama catarsi.
L’orrore vero ci cammina sempre accanto.

mercoledì 6 giugno 2012

amori diversi...ma esiste un amore uguale?



Laura e Alex esistono davvero.
Non sono medici, non sono una bionda e l'altra rossa, probabilmente non hanno nemmeno un tratto caratteriale simile a quelli delle due protagoniste, ma esistono.
Sono due ragazze che passeggiano tenendosi per mano sul lungomare di Varazze, non ricordo di preciso quando. Non è estate, questo lo rammento e la loro presenza abbassa clamorosamente l'età media dei passanti. Sono fresche, belle, sportive e disinvolte. Si tengono per mano e ascoltano musica dallo stesso ipod, appeso al fianco di una delle due, spartendosi gli auricolari. Le dita intrecciate, gli occhiali da sole, gli sguardi indipendenti. Suggeriscono complicità, quella di un'amicizia profonda, quella che ti permette di passeggiare senza l'obbligo della conversazione. Quando il silenzio non è un vuoto da riempire, è sempre un buon segno. Io cammino in senso opposto, pensando agli affari miei, ma loro due, in qualche modo, attirano la mia attenzione. Positivamente. Poi, d'improvviso, entrambe sorridono e si guardano. Immagino sia per la musica, forse una canzone con un significato particolare. C'è tutto, in quel sorriso. E dopo pochi secondi, si baciano, con una tenerezza commovente. Io non me l'aspetto, forse sono più chiusa di quanto non creda o forse, semplicemente, in quel momento non ci penso. Mi viene naturale, se vedo due ragazze che si tengono per mano, pensare che siano amiche. L'ho fatto tante di quelle volte... Quel bacio mi emoziona, nel senso stretto del termine (come direbbe una mia carissima amica), cioè smuove qualcosa. Mi ricorda quelli fra mia madre e mio padre, la sensazione di calore che provo quando sfioro le labbra dell'uomo che amo. E' bello e confortante. Ho appena incontrato sulla mia strada due persone che si amano.
Allora rifletto.
Il loro amore verrebbe definito "diverso". E lo è, sicuramente. E' diverso da quello facile di una notte, da quello rabbioso di un uomo che picchia una donna, da quello di chi tradisce, da quello di chi usa. Ma lo è anche dal mio per il mio uomo, non per una questione di genere, ma perchè siamo tutte persone diverse. L'amore è l'impronta digitale di una coppia, non ce n'è uno uguale all'altro. Quando è sincero, profondo, appagante, va celebrato e raccontato. Io davvero non capisco chi preferisce l'ipocrisia di una famiglia allo sfascio al legame meraviglioso fra due persone solo perchè condividono un assetto cromosomico.
Amen.

martedì 5 giugno 2012

si comincia...

Ciao a tutti. Primo giorno da blogger, spero non ultimo. L'idea è quella di creare uno spazio nel web, legato agli argomenti trattati nel libro, in cui ognuno possa esprimere un parere sul medesimo e sugli argomenti in esso trattati.
Il romanzo è il primo di una trilogia, quindi parallelamente alle discussioni che possono nascere intorno a ricerca, etica, amore, ecc., vi terrò informati sui progressi del secondo capitolo, attualmente in fase di scrittura. Condividerò i momenti di entusiasmo e quelli di sconforto, che fanno parte dell'iter di ogni storia che prenda forma.
Spero di ritrovarvi numerosi!
Ah, non è escluso, anzi è certo, che l'aspetto del blog cambi in continuazione. Se avete suggerimenti...